Cruelty-free | Le aziende testano ancora sugli animali?

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Cruelty-free
Credit polishandpaws

Buon pomeriggio e bentornate nel blog <3. Quest’oggi vi parlerò del cruelty-free. La domanda che molti si pongono è “Le aziende testano sugli animali?”. In realtà non c’è una risposta precisa, ed ora vi parlo delle mille sfaccettature della legge in vigore.

Piccola premessa, in maniera molto sommaria ero già a conoscenza della legge che modera la sperimentazione animale per uso cosmetico ma, in realtà, grazie ad una recente lettura, ho scoperto tantissimi dettagli a me sconosciuti. A permettermi di fare tali scoperte è stata Beatrice Mautino, ricercatrice in Neuroscienze all’Università di Torino e divulgatrice e giornalista scientifica ed autrice del libro “Il trucco c’è e si vede. Inganni e bugie sui cosmetici. E i consigli per difendersi”.

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Credit @divagatrice

Grazie a questo libro ho avuto modo di approfondire temi attuali sui quali,ahimè, mi son resa conto di avere troppe poche informazioni o, peggio, di aver appreso solo quelle che il mercato ha voluto mostrare. Quest’oggi mi soffermerò sulla questione cruelty-free dopo essermi confrontata, sui miei social, con alcune ragazze.

Pronte a scoprirne di più? Buona lettura <3

A partire da Marzo 2013, come prescritto nel Regolamento del 2009, la legge europea vieta la commercializzazione di prodotti finiti, che siano stati testati su animali, e di quelli che contengono ingredienti testati su animali.

La forte sensibilizzazione e le lotte affrontate dalle associazioni animaliste, hanno portato le aziende a trovare un’alternativa alla sperimentazione animale ed infatti, ancor prima che la normativa si adeguasse, imponendo un divieto graduale, le stesse aziende si erano già attivate per modificare i test.

Parlando di numeri, strettamente legati agli animali utilizzati per la sperimentazione in campo cosmetico, in tutta l’Europa, risultavano 5500 nel 2005, 1818 nel 2007, 1510 nel 2008 fino ai 334 del 2009.

Proprio nel 2009 il divieto di sperimentare sugli animali, sempre per test cosmetici, viene esteso anche ai singoli ingredienti (A partire dal 2009 la sperimentazione sui prodotti finiti è vietata su tutto il territorio europeo). In realtà, si è resa necessaria una proroga fino al 2013,in quanto vi era l’eccezione per test particolari relativi proprio alla sicurezza dei cosmetici, per i quali non erano ancora state trovate valide alternative (L’autrice fa l’esempio dei test di tossicità da uso ripetuto, tossicità riproduttiva e tossocinetica).

Bisogna però sottolineare che, solo nel 2013, con l’introduzione del marketing ban, ossia il divieto di commercializzazione, l’Unione Europea ha integrato anche il divieto di sperimentazione a quello di vendita di tutti i cosmetici testati su animali prodotti fuori dal suolo europeo. Infatti, fino ad allora, i produttori potevano ancora testare al di fuori dell’Europa e utilizzare tali ingredienti per prodotti rivenduti poi in Europa.

Tale legge non si estende al di fuori dell’Europa infatti, in altri parti del mondo, la legislazione è diversa. In Cina, solo nel 2014, è stata approvata la legge per limitare l’obbligo di effettuare test per uso cosmetico; Negli Stati Uniti la sperimentazione non è né vietata né obbligatori, quindi i produttori son liberi di scegliere; In Giappone i test sono obbligatori per prodotti che contengono nuovi coloranti, filtri solari o nuove molecole conservanti.

Per l’incompatibilità dei limiti imposti dalle differenti leggi riguardante la sperimentazione animale, molti brand non entrano in Europa e viceversa anche se, alla base, vi sono delle scelte commerciali.

Ovviamente, eliminando la sperimentazione animale per uso cosmetico i laboratori hanno dovuto trovare dei metodi alternativi ma, in realtà, non è corretto affermare che un singolo test alternativo possa sostituire completamente quelli effettuati sugli animali, soprattutto quando ci si ritrova di fronte a reazioni complesse coma la tossicità riproduttiva. Inoltre, quando una sostanza entra nel nostro organismo subisce trasformazioni che non sono sempre prevedibili.

Per tale capitolo, l’autrice conclude che il mercato europeo è quello più cruelty-free di tutti.

In realtà, come anche lei dirà, tale affermazione è in parte corretta ed in parte no e capirete il perché proseguendo la lettura.

Il bollino con il coniglietto è ancora utile per distinguere i brand cruelty-free?

Andiamo per gradi e capiamo prima come funziona..

In Italia, l’ente deputato più diffuso per rilasciare tale certificazione è l’Icea, Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale, in collaborazione con la Lav, la Lega Antivivise (Anche la Peta, People for the Ethical Treatment of Animals, ed altri enti rilasciano una certificazione simile).

L’azienda che vuol ottenere la certificazione deve presentare una documentazione che attesti di non sperimentare da tale anno, alla quale bisognerà allegare carte e dichiarazioni dei fornitori e autocertificazioni. Inoltre la società dovrà impegnarsi a ricevere annualmente la visita degli ispettori.

Se tutti i controlli saranno positivi, l’azienda riceverà la certificazione (E potrà utilizzare il logo del coniglietto specifico per Icea e Lav) che, ovviamente, ha dei costi. Parlando sempre della Icea,per ottenere il coniglietto, c’è un costo di 500€ giornalieri per ogni ispettore inviato a verificare. Tale cifra va a ricoprire la valutazione documentale delle prime 100 materie prime, e si aggiungeranno 3€ per ogni materia prima aggiunta.

Come già detto, la Icea lavora in collaborazione con la Lav che, ovviamente prevede un costo per il rilascio delle Royalty per l’utilizzo del logo.

Cruelty-free

Ovviamente un’azienda non potrà proporre, a vita, il coniglietto in base ai primi controlli, per mantenerlo dovrà annualmente rinnovare la procedura.

Ciò che, probabilmente, in tanti non sanno, è che il simbolo del coniglietto, in realtà, non va solo a certificare il cruelty-free, inteso come sperimentazione animale, ma va a garantire che le aziende non utilizzino ingredienti ottenuti dall’uccisione di animali, come per esempio i coloranti estratti dalle cocciniglie o le proteine della seta (Bisogna anche sottolineare che il coniglietto non va a classificare che il prodotto è anche vegan infatti, per tale classificazione, vi sono delle certificazioni apposite. Un vegano potrebbe non acquistare un prodotto che contenga miele, in quanto frutto dello sfruttamento delle api).

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Credit iodonna

Come sottolineato, il simbolo del coniglietto non si limita a certificare il cruelty-free inteso, esclusivamente, come non sperimentazione sugli animali, ed averlo non implica che le altre aziende che ne son sprovviste, non lo sono.

Tale idea crea problemi anche per l’autorità garante della pubblicità; Nel 2014, una famosa azienda (All’interno del libro l’autrice cita il nome, io preferisco non menzionarlo) è stata multata per pubblicità ingannevole, in quanto lasciava intendere ai consumatori che i loro prodotti fossero cruelty-free proprio per la presenza del coniglietto,a discapito delle aziende che non sfoggiano il simboletto, ma lo sono ugualmente.

Ovviamente, per tanti ingredienti non vi è bisogno di alcun tipo di test, in quanto vi sono dei dati storici risalente ai test effettuati prima del 2009. Ciò significa che, alle spalle, anche il coniglietto ha la sperimentazione animale.

E’ ormai chiaro che, in Europa, non può avvenire sperimentazione animale per uso cosmetico, ma se vi dicessi che potrebbero essere presenti comunque degli ingredienti testati?

L’Unione Europea ha delle leggi molto restrittive riguardo le sostanze vietate e quelle da tenere sotto controllo. Basti pensare che sono più di 1300 quelle inserite nell’allegato II del Regolamento n.1223/2009 e che non possono essere assolutamente utilizzate in cosmetica. Tra queste vi è la cicuta, la nicotina o allergizzanti come il famoso nichel (Grazie all’autrice ho avuto modo di controllare il regolamento e gli elenchi completi, vi consiglio di farvi una lettura, basterà cercare: Regolamento (ce) n.1223/2009 sui prodotti cosmetici del 30 novembre 2009).

Ovviamente nessuna azienda può utilizzare i prodotti vietati (Per quelli da tenere sotto controllo, vi è un ulteriore legislazione, infatti andranno utilizzate quantità e modalità stabilite, con precise indicazioni tipo “Tenere lontano dalla portata dei bambini”), se qualcuna lo facesse, incapperebbe in sanzioni gravi.

Ora che sappiamo come ci si comporta con le sostanze già note, passiamo a quelle non presenti nelle elenchi sopra menzionati.

Cosa accade se un’azienda vuole utilizzare degli ingredienti sui quali si nutrono dei dubbi?

Come prevede la legge, le sostanze utilizzate solo per la cosmetica, non possono essere testate su animali ma, molti ingredienti utilizzati in questo settore, sono usati anche in altri ambiti, alimentare, farmaceutico etc… per i quali vigono leggi diverse.

Su tutti ciò vigila il Reach, Regolamento dell’Unione Europea << Adottato per migliorare la protezione della salute dell’uomo e dell’ambiente dai rischi delle sostanze chimiche>> (Il virgolettato è voluto, in quanto, per evitare errori di comprensione, ho riportato ciò che è stato scritto dall’autrice>>

Le aziende devono <<Identificare e gestire i rischi collegati alle sostanze che producono e vendono nell’Unione Europe, dimostrando all’Echa come utilizzare tali sostanze senza correre rischi e informare gli utenti delle misure di gestione dei rischi>>. Se i rischi non sono gestibili, allora l’autorità potrà limitarne l’utilizzo e lo inserirà nell’elenco delle sostanze vietate.

Il discorso cambia se una di queste sostanze è destinata anche ad altri settori, come quelli sopra citati. Su richiesta delle singole commissioni, la sperimentazione animale può essere ammessa, ma solo come ultima alternativa, ossia solo nel caso in cui i test alternativi hanno già dato riscontri non soddisfacenti (Un esempio sono le sostanze dannose per l’ambiente o gli operai, per arrivare ad una risposta sicura, sono ammessi i test).

Inoltre, bisogna considerare che alcune sostanze non sono presenti sulle etichette, un esempio è l’utilizzo di solventi particolari, per ottenere magari un determinato colore, che non lasciano traccia. Queste, per esempio, possono essere testate su animali, ma non è necessario dichiararlo.

Ripropongo la domanda, Il bollino con il coniglio ci aiuta dunque a scoprire le aziende Cruelty-free? Ancora non possiamo rispondere perchè vi sono altri dettagli da scoprire.

Potremmo affermare che, in realtà, tale certificazione non esclude, totalmente, la sperimentazione animale. Dal Testo dello Standard Internazionale, Stop ai test su animali, riportato sul sito Icea, si legge: “L’azienda che richiede la certificazione non deve condurre o commissionare test su animali su prodotti cosmetici e non deve utilizzare ingredienti che siano testati per scopi cosmetici”. Dunque è fondamentale specificare lo scopo della sperimentazione, e va necessariamente dimostrato sia quando è avvenuta sia a quale scopo è stata condotta.

Sempre nel documento, si legge: “Se l’ingrediente è stato testato su animali a scopo cosmetico dopo la data dichiarata nella richiesta, allora non può essere usato”. Proseguendo la lettura si evince però che se l’ingrediente è testato per scopo non cosmetico, allora tutto cambia.

Vi saranno due limitazioni:

1: L’ingrediente è utilizzato prevalentemente in campo cosmetico (Più del 50%)

2: L’impiego nella cosmesi sia antecedente al suo utilizzo in altri settori pena la perdita della certificazione.

Cosa significa ciò?

Un’azienda con certificazione Icea e Lav sarebbe autorizzata ad usare ingredienti che sono stati testati su animali per scopi diversi da quelli della cosmetica anche dopo la data dichiarata sulla certificazione, purché l’utilizzo non sia prevalentemente quello cosmetico.

Inoltre, dettaglio non trascurabile, le aziende cosmetiche comprano ingredienti da altre aziende fornitrici, e << Non sono responsabili delle sperimentazioni animali condotte fuori dalla loro catena di fornitura, in quanto non hanno alcuna possibilità d’influenzarle>>.

Un altro particolare della legge riguarda le aziende che non producono solo cosmetici ma anche altri prodotti, come quelli per la casa. In questo caso allora effettua o commissiona test su animali e può comunque accedere alla certificazione Icea e Lav.

Proseguendo, sempre nello Standard, viene sottolineato che ciò: “Significa che se, per esempio, Unilever, decidesse di produrre cosmetici cruelty-free, noi potremmo approvare la certificazione”.

Prendiamo ad esempio Urban Decay, brand cosmetico di fama internazionale. Il marchio non rivende in Cina proprio per le incompatibilità con le leggi riguardanti la sperimentazione animale. Possiede il certificato cruelty-free e vegan ma, attenzione, appartiene al gruppo L’Oreal che, a sua volta, è proprietario di altri marchi che vengono venduti al di fuori dell’Unione Europea, adattandosi dunque ai test sugli animali.

Vi pongo una domanda… Urban Decay può essere considerato cruelty-free o l’appartenenza al gruppo L’Oreal dovrebbe penalizzarlo? 

Beautrice Mautino conclude questo capitolo del libro spiegando che quanto riportato non è fatto allo scopo di screditare la certificazione Icea e Lav (In realtà avrebbe potuto prendere ad esempio qualunque altro tipo di certificazione al fine di spiegare come si svolge il tutto, non sarebbe cambiato nulla) o la stessa legge sul cruelty-free, ma al solo fine di far capire quanto possa dirci un bollino, di qualsiasi tipo, sul processo di produzione e quanto la realtà sia più complessa e ricca di sfumature.

Ovviamente, come anche lei sottolinea, le associazioni per gli animalisti hanno ottenuto grandi vittorie, tanto da arrivare alla moratoria del 2013, limitando la sperimentazione a scopo animale su tutto il territorio europeo, senza però minare la sicurezza dei consumatori.

La “sintesi” fatta è tratta, appunto, dal libro di Beatrice Mautino, grazie a lei ho potuto scoprire i mille volti di questa legge che, come già detto, conoscevo solo sommariamente. Ad oggi se mi chiedessero se le aziende cosmetiche testano sugli animali, non mi limiterei a rispondere Si o No, spiegherei cosa prevede la legislatura europea, così da far capire che, in realtà, ogni azienda che rivende in Europa è cruelty-free, ma vi sono delle sfumature da non sottovalutare.

Ora che l’articolo è terminato vi pongo nuovamente la domanda… il coniglietto di permette di capire quali sono le aziende cruelty-free? 

Grazie per aver letto il mio articolo <3

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Capelli ricci e rossi ed una passione smisurata per glitter ed illuminante. Nel Beauty world ho scelto d'inserirmi con proposte insolite, così da mostrare agli utenti qualcosa di pazzo e diverso dal solito. A tanta follia unisco la parte più seria e professionale di questo lavoro, ossia recensioni dettagliate ed utili per i miei lettori. Benvenuti nel mio mondo e, ricordate, la passione fa volare alto.

5 COMMENTS

  1. Complimenti per questo articolo. Io stessa sapevo cose in maniera piuttosto sommaria in merito, per cui è servito anche a me.
    La tematica è molto complessa effettivamente e ricca di sfumature che spesso, in maniera semplicistica, non vengono prese in considerazione.

  2. Ciao Daniela. bell’articolo esaustivo.
    Domanda: oltre a leaping bunny (ICEA) e PETA (beauty without bunnies), quali sono le altre certificazioni cruelty free piu’ comuni usate in italia?
    Grazie Mille

    • Ciao Silvia, grazie per i complimenti, sono felice che l’articolo si sia piaciuto. Le più comuni in Italia son quelle che ho menzionato nell’articolo ed infatti sono anche quelle più ritrovate da noi consumatori. Una meno citata è la Ecocert, oppure la certificazione per il vegan, come VeganOk

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